Alla me di quindici anni fa
C’è un esercizio che ricorre nella pratica della scrittura e che mi appresto a eseguire senza pretese di stile o di forma, preoccupata piuttosto dalla sostanza: una lettera indirizzata a noi stessi, ma nel passato. Così mi chiedo cosa direi alla me di quindici anni fa, che si affacciava alla sua vita da grande in una nuova città?
Ci ho pensato spesso e a lungo, mentre questi anni passavano, lasciandomi addosso sensazioni contrastanti nel guardare a un passato che era appena l’altro ieri, ma che già non potevo più cambiare. Mi vedevo percorrere via Zamboni per la prima volta, mi vedevo in Piazza Maggiore, andavo con la mente a tutti pomeriggi in cui mi ero persa tra i vicoli del centro storico, e poi subito ritrovata; ero in via Ugo Bassi, sotto casa, alla fermata del bus, mi chiedevo se sarebbe arrivato in ritardo e se avrei trovato posto in aula, per la lezione.
A Bologna mi sono persa e ritrovata cento, mille volte, e non fisicamente, non in senso geografico. Ho perso le coordinate della persona che ero, che volevo essere, ho cercato la mia direzione con impazienza, con violenza e arroganza, perché non mi sembrava vero che, all’improvviso, non fossi più in grado di vedere davanti a me. Ma siamo tutti un po’ ciechi, quando si tratta di crescere e compiere delle scelte: il primo istinto, quello contro il quale molti di noi devono combattere — e qualcuno lo fa per tutta la vita — è guardarsi intorno per cogliere il suggerimento di un amico, un partner, un parente, per negarsi la possibilità di sbagliare. Ha scelto lui, lei, per me, e se farò un errore non sarà mio, ma suo.
Abbiamo un bel dire che vogliamo essere i protagonisti. Vorremmo tutti, sulla carta, poi la faccenda si complica, subentrano le variabili della vita vera, quella che insegna a suon di manrovesci, e forse ci rendiamo conto che sì, avremmo voluto essere protagonisti, ma è una fatica, quando non conosciamo il finale. Il peggio, però, arriva quando viviamo tutta la nostra esistenza pensando di essere stati i cantanti sul palcoscenico, e invece eravamo solo le comparse nella trama di uno dei pezzi suonati dalla band.
Che cosa diresti, tu, alla versione ancora adolescente di te stessa, mentre cominciava la sua avventura da adulta, mentre diventava grande? Beh, alle soglie dei 34 anni, credo che mi limiterei a una frase soltanto. Andrei da quella ragazza con i capelli ricci (era la prima permanente) e con il viso ancora troppo tondo per somigliare a quello di una donna, le poserei una mano sulla spalla e le direi: “Ricorda sempre che le possibilità sono infinite: è tutto ciò che devi sapere”. Poi me ne andrei, come svaniscono gli spiriti, o i sogni al mattino. Lei si guarderebbe intorno, stranita, farebbe spallucce — “Dicevi a me? Proprio a me? Certo che qui fuori è pieno di matti!”— ma la conosco bene, si porterebbe a casa quelle parole e ci rifletterebbe al punto da renderle parte del suo pensiero, si lascerebbe connaturare da quelle poche sillabe, e un giorno le tornerebbero utili.
Perché è proprio quello di cui abbiamo bisogno: sapere che ci sono milioni e milioni di possibilità, e non importa se non potremo sperimentarle tutte. Esistono, qualcuno le ha già vissute, provate, ha già fallito e si è già rialzato, su percorsi diversi dai nostri; è successo prima e succederà dopo di noi. Qualcun altro potrà vivere la vita che io non ho scelto, potrà incontrare chi non ho incontrato, amare chi non ho amato, scrivere ciò che io non ho scritto, oppure leggere le mie parole, le parole di chi mi sta accanto, ascoltare l’assolo di chitarra inciso da chissà quale geniale musicista di strada e lasciato a marcire su un vecchio CD, dimenticato nel cassetto di una casa di studenti universitari. Qualcuno vivrà esperienze che a me suscitano fastidio, esistenze che solo a immaginarle mi sento mancare la terra sotto i piedi, e sarà felice, oppure no. Sarà riconoscente, oppure no. Ma questo non cambia il dato di fatto, che le possibilità sono infinite, e saperlo mi aiuta a comprendere il senso del nostro essere umani: una specie che guarda al futuro e si muove in avanti, spinta da un’energia che sempre si rinnova e si rigenera.
È un pensiero che mi dà pace, sapere che appartengo a qualcosa di più grande. Di così grande.
Ma c’è dell’altro, naturalmente. E forse allora dovrei parlarci più a lungo, con la me del passato, dovrei intercettarla in un’aula universitaria, in un bar, offrirle un caffè, proporle di fare quattro chiacchiere davanti a una birra. Perché sono sicura che con il tempo capirebbe — so di aver capito, del resto — e si renderebbe conto che quella frase porta con sé anche un’altra verità. Glielo vorrei dire lo stesso, però, potrei scriverle un biglietto e lasciarlo sul tavolino, farlo scivolare nella tasca della sua borsa. Ci scriverei, più o meno: “Andrà bene. Qualunque cosa sceglierai, andrà bene. A patto che sarai disposta ad assumertene la responsabilità, a patto che ci crederai con tutta te stessa, che lotterai, che andrai fino in fondo. Non c’è una strada giusta, non ce n’è una sbagliata. Ma devi scegliere, non puoi permetterti di restare in balia degli eventi, perché ne soffrirai. Devi prendere delle decisioni, perché se lascerai che siano gli altri a farlo, dovrai comunque pagarne le conseguenze. Everything comes with a price, e se devi pagare, è meglio che il prezzo ti sia chiaro da subito. È il solo modo — e perdonami se ti domando di credermi sulla parola, ma un po’ di esperienza ormai l’ho messa insieme — è il solo modo per gioire delle soddisfazioni che arriveranno. Abbi fiducia, abbi fede, in te stessa, soprattutto: accadranno cose belle, e anche cose brutte. Passiamo tutti, più volte, attraverso entrambe. Come ti dirà un’amica che ancora non conosci, le cose accadono. Punto. Prenditi cura di te e delle persone a cui vuoi bene, tutto il resto verrà da sé, anche quando non te lo aspetti. E il trucco è questo, non aspettarsi niente, non dare niente per scontato o dovuto. Sii grata, non lesinare sui complimenti sinceri, evita i giudizi, se puoi, ogni volta che puoi. Anche quelli che riguardano le tue azioni, i tuoi pensieri, la tua immagine riflessa nello specchio”.
Forse mi giocherei troppo, con un gesto del genere: eclatante, spavaldo… e poi, insomma, lo sappiamo tutti che quando si prova a cambiare il passato si combinano solo guai. Senza contare che, se tornassi nella Bologna di quindici anni fa, ne approfitterei per bere un paio di birre in relax, lontano da mascherine e coprifuoco. Eh già! Altro che dispensare consigli e profezie. O forse, più probabilmente, non incontrerei mai la me del passato perché le nostre vite, i nostri orari sarebbero così diversi… Dovrei fare un bello sforzo, per correrle dietro nei locali del centro. E, se cambiare anche solo un minuto della sua vita, se fermarla mentre sta per rasarsi i capelli — per esempio — o mentre sta entrando nello studio di via delle Moline per farsi il piercing al labbro, la renderebbe diversa, a quindici anni di distanza, beh… sono sicura che non farei nulla, non direi nulla. Con il mio dolore, i miei errori e tutte le lacrime che ho versato, resto più che mai del parere che le cose accadano. Che ci rendono ciò che siamo e, alla fin fine, non mi è andata poi così male. Perché forse, come scriveva Calvino, “a volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane”.