Della vecchia gente, delle cose che passano, di Lisbona

Erica Di Cillo
5 min readMay 19, 2023

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Na véspera de não partir nunca
Ao menos não há que arrumar malas
Nem que fazer planos em papel
Com acompanhamento involuntário de esquecimentos,
Para o partir ainda livre do dia seguinte.

Alla vigilia del non partire mai/per lo meno non ci sono valigie da fare/né si devono fare progetti per iscritto,/con la scorta involontaria delle dimenticanze,/per la parte ancora libera del giorno dopo.

[Na véspera de não partir nunca, F. Pessoa]

Dicono che Lisbona sia Pessoa, e che Pessoa sia Lisbona, in un compenetrarsi di strade e parole, pensieri e colline, tramonti e calçadas, che si rincorrono tra le righe di un foglio immaginario, il foglio dell’anima, sul quale scrive bene soltanto la penna del cuore. Quella che non conosce giusto o sbagliato, che non giudica, che non sentenzia. Quella che non chiede, ma dà.

Oggi so perché a Lisbona non ci ero ancora arrivata, a dispetto dell’amore per la poesia di Fernando Pessoa e per Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, che di Pessoa è stato il traduttore italiano. Le parole mi hanno sempre accompagnata e guidata nella mia ricerca: nel provare a definirmi, a individuare nomi e cognomi per i sentimenti, per gli affetti. Nel provare a capirci qualcosa di questo mondo, che per me resta un mistero, a volte. Un intricato e meraviglioso groviglio di relazioni, strette di mano, sguardi e non detti da decifrare, a cui assegnare un valore sulla base del quale aprire bocca o tacere, agire o farsi indietro. Nel mio muovermi a zonzo, in cerchio, a volte senza meta, e talvolta nello stare ferma, ho amato pagine e pagine di poesia e di letteratura.

Ho ricopiato versi e citazioni su diari e quaderni, su bigliettini attaccati qua e là, memento di ciò che il mio cuore sentiva più vicino, a seconda del periodo, e che in molti casi mi avrebbe accompagnata attraverso gli anni. Leggevo, chiudevo gli occhi, e pensavo che nessuno lo avrebbe detto con parole altrettanto incisive. Ma ero ferma, non perché incapace di movimento, ma perché concentrata su quello sbagliato. Mi spostavo sulla superficie delle cose, lateralmente. Come il granchio che contempla “le varie possibilità all’orizzonte”, metafora della protagonista di un altro romanzo letto e riletto, Colpiscimi di Olivia Corio.

Come quella giovane donna, tante volte ho pedalato per avere la sensazione di muovermi, di andare: era solo una sensazione, che rispondeva al bisogno fisico di accumulare stanchezza per sentirmi in pace con ciò che il mondo chiede.

Un movimento laterale, sulla superficie, perché andare a fondo mi faceva paura. Così di Pessoa ho sempre amato e portato con me due sole righe di quella poesia: “Alla vigilia del non partire mai, per lo meno non ci sono valigie da fare”. Sulla loro scia, non ero mai stata a Lisbona, così come in tanti altri posti e in tante situazioni che mi facevano paura.

Una viaggiatrice in potenza, sia dei luoghi geografici che di quelli dell’anima, con la volontà di guardare oltre il pelo dell’acqua, ma con troppo timore di bagnarsi il viso. La donna che inseguiva il sole, per vivere all’ora del tramonto e non dover mai pensare che dopo c’è la notte fonda: un’altra di quelle cose che fanno paura.

Ma alla vigilia del non partire mai non ci sono da preparare bagagli, perché il luogo del pensiero e il luogo fisico non si sono incontrati ancora e mai lo faranno. Le due righe di poesia, di cui si sente forte l’eco anche in Prima del viaggio da Satura, di Eugenio Montale, oggi prendono un senso più ampio, a guardarle da lontano. A guardarle dopo aver incontrato Lisbona, e altri versi, sempre di Pessoa: quelli che ci ricordano come tutto valga la pena, anche il dolore, se l’anima non è piccola.

Valeu a pena? Tudo vale a pena
Se a alma nao é pequena.
Quem quer passar além do Bojador
Tem que passar além da dor.

Ne è valsa la pena? Tutto vale la pena/se l’anima non è piccola.
Chi vuole oltrepassare il Bojador/deve andare oltre il dolore. [Mare portoghese]

Mare portoghese l’ho ascoltata di fronte al Teatro Nacional de São Carlos, dalla voce della guida turistica. Ho trattenuto il fiato. Ho pensato a cosa rappresenta per me il Bojador, che un tempo era il limite della terra conosciuta, considerata sicura da esplorare: Capo Bojador, nel Sahara occidentale. Confine tra mondo conosciuto e confortevole, e mondo ignoto, altro da noi. Passaggio inevitabile attraverso il quale deve muoversi chiunque voglia esplorare, scoprire, mettersi alla prova. Luogo interiore, più che fisico, di fronte al quale ogni persona è chiamata a prendere una decisione. Fare, anche a costo di provare dolore, o non fare. Navigare, come i marinai di una volta; guardarsi dentro, uscire dalla comfort zone, in senso metaforico e più contemporaneo, avere il coraggio di immergersi sotto la superficie del mare in cui Dio “ha rispecchiato il cielo”.

È agire, nella convinzione che l’anima non sia piccola e che ne valga la pena. È agire, nonostante l’esito mai certo. È agire, nella consapevolezza che le valigie non preparate possono essere porte non chiuse, spiegazioni non date, sottintesi che andavano spiegati. È agire, muovendosi in avanti e non lateralmente. È correre il rischio, cercando di non dimenticare mai che esiste anche la paura dell’altro, non soltanto la nostra. Cercando di non dimenticare che la sofferenza è sofferenza anche per chi ci sta di fronte: la mia e la tua, due storie diverse. Cercando di provare gratitudine, quando l’altra persona va oltre il suo Bojador per venire incontro a noi.

Alla vigilia di non partire mai, ci si può forse concedere il lusso di sperare: ci si può illudere che non dover fare le valigie sia abbastanza. Eppure lo sappiamo che non è sufficiente. Il richiamo del Bojador, qualunque forma assuma, è onnipresente. Ignorarlo è violentarsi, è restringere l’anima.

Sabato scorso mi sono svegliata con in mente il titolo di un libro letto durante il primo anno di università. Van oude mensen, de dingen die voorbijgaan di Louis Couperus (Della vecchia gente, delle cose che passano) è un romanzo ambientato in Asia e in Europa. È la storia di una famiglia che custodisce un terribile segreto, destinato a venire a galla. Un libro che parla di passato, dei fardelli che ci portiamo dietro e che possono toccare anche la vita delle persone con cui abbiamo contatti e relazioni. Penso di nuovo al Bojador, al passato, al primo anno di università. Il Bojador, che è uscire dalla comfort zone, da quello spazio familiare fatto di abitudini, di pattern, di storie che si ripetono, di autosabotaggi. Allora, probabilmente, vale la pena trovare un’altra forma di abitudine, una forma virtuosa, che non renda piccola l’anima. Che ci riporti verso ciò che siamo e vogliamo essere, anche se per un po’ di tempo lo abbiamo perso di vista. Che ci guidi verso tutta la luce che possiamo emanare, anche se ci fa paura.

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