Perché è ancora (e sarà sempre) il momento di costruire

Erica Di Cillo
5 min readJan 20, 2022
Christopher Burns/Unsplash

Un giorno di molti anni fa, nel Cinema Europa di Bologna, mentre ero sprofondata nella poltrona, ho sentito una frase che mi avrebbe perseguitata a lungo. Stavo guardando un documentario su alcuni giovani artisti egiziani, per quello che ricordo, e una delle intervistate diceva che tutti noi abbiamo “una finestra temporale dai 20 ai 30 anni in cui provare a fare qualcosa delle nostre vite”.

Non sono le parole esatte, ma il senso è lì, nel fare, nel costruire. Io di anni ne avevo già almeno 28 e quella frase mi aveva spaccata a metà, mi aveva subito spinta a estraniarmi da tutto per chiedermi “E tu, cos’hai fatto in questi anni? Cosa farai fino ai 30, riuscirai a piantare qualche seme per costruire davvero il tuo futuro, per dargli un senso? O forse proprio perché hai sempre cercato il senso, hai dimenticato di metterti all’opera, di mostrarti al mondo, di renderti partecipe della vita fuori da te stessa?”

Ho guardato indietro, come facciamo quando qualcuno ci insegue, e ho visto un nemico. Che aveva il mio naso, i miei occhi e la mia bocca, che si muoveva e parlava come me, solo che ci credeva di più, che aveva più sete, più fame, scavava buche nella sabbia a mani nude, si sporcava il viso di fango, senza alcuna paura. Era quasi feroce, aveva gli occhi della tigre. Quelli che sentivo di non avere più, e che mi domandavo, a quel punto della vita, se avessi mai avuto davvero. Ho guardato indietro come facciamo quando vogliamo controllare che una porta sia chiusa, e l’ho vista aperta: in mezzo alla stanza c’ero io, al tappeto, battuta da quel nemico. Battuta da me stessa.

Sentivo di non avere niente tra le mani, neppure dei granelli di sabbia. Sentivo di aver corso, ma con gli occhi bendati, girando in tondo senza via d’uscita. Ero io, ero sempre stata io, il nemico. Più agguerrito, perché oscuro. Più determinato, perché consapevole che quella era una battaglia importante. Cinico, perché non aveva bisogno di cercare un senso. Gli bastava sconfiggermi, prendere il sopravvento: era questo il suo scopo, il resto non contava niente.

A scommettere contro se stessi non si vince mai. È una regola, la prima, ma anche quella di cui più spesso ci dimentichiamo. Ce ne burliamo, a volte, pensando sia il modo giusto di “non prendersi troppo sul serio”. Pensando che tanto, anche se dovessimo perdere, avremmo comunque vinto “in qualche modo”, scegliendo il nulla rispetto al poco. Ma tutti quei “non ce la farò, non posso farcela” che pronunciamo a bassa voce di fronte alle sfide, o pensiamo soltanto, illudendoci che così valgano meno, sono affilati come punte di diamante. Il bisogno di distruzione che sperimentiamo, la voglia di radere al suolo ogni cosa, sono lame, sono fibre di carta vetrata che raschiano via la nostra fiducia e la nostra voglia di agire, uno strato dopo l’altro.

Così, quel giorno di non so più che mese, nel Cinema Europa di via Pietralata, mi ero disconnessa dalla realtà per chiedermi in che direzione stessi andando. Per chiedermi come fossero passati i primi otto anni che separavano i 20 dai 30, se avessi fatto qualcosa di “importante”. Soprattutto, mi ero fermata a chiedermi perché mi fossi lasciata sconfiggere, perché avessi scommesso contro me stessa. Avevo anche esultato, me lo ricordo, avevo alzato le braccia al cielo e posato lo sguardo sulle rovine di fronte a me: mi sfuggiva come fossi arrivata a quel punto, però. Mi sfuggiva perché avessi provato soddisfazione nel buttare a terra i mattoncini della mia costruzione. Nello specchio, vedevo riflesso un ghigno inquietante.

Oggi, che di tempo ne è passato molto altro, credo di aver trovato qualche risposta. Quegli otto anni della mia vita da ventenne li ho trascorsi prima in compagnia del mio nemico, la mia controparte, che avevo iniziato a nutrire durante l’adolescenza in risposta alle aspettative, ai desideri e ai sogni di qualcun altro, agli stimoli del mondo esterno, della società e della famiglia. Poi li avevo passati ad abbattere tutto ciò che non sentivo mio, perché il riflesso nello specchio non mi apparteneva. Ero io ma non ero io, ero io con la paura di essere me, di diventare ciò che avrei voluto. E avevo scelto una strada che pensavo si snodasse parallela, proseguendo accanto a quella che avrei preferito, ma che invece la toccava soltanto, in un punto nel quale mi ero crogiolata per un po’.

Oggi so che quella cosa a cui non sappiamo dare un nome, un nome ce l’ha. È la resistenza. La forza che ci trascina in basso, quell’istinto a distruggere che si annida in noi e che ci fa accontentare di una tangente, una traiettoria che sfiora soltanto ciò che possiamo e vogliamo essere, quel sussurro che ci trattiene tra le coperte quando la sveglia ha già suonato due volte, quell’ansia di non essere all’altezza. L’ansia, che a volte si veste da pigrizia, perché lo sappiamo tutti come funziona: l’ansia, un po’ di ansia, ci vuole, è quella che ci tiene sul “chi vive”, ma se è troppa, ci blocca.

Nel negozio in cui lavoravo, molti anni fa, dietro la cassa c’era un piccolo cartoncino con su scritto all’incirca così: “non abbiamo paura delle nostre tenebre, ma della nostra luce”. Oggi so che per tutto quel tempo ho avuto paura di vedere la parte migliore di me. Così tanta paura da cercare di oscurarla in mille modi diversi. Così tanta da non chiedermi se avessi dato qualcosa agli altri, capace solo di preoccuparmi che nessuno mi portasse via ciò che ero, anche se sentivo di non appartenermi.

Oggi so anche un’altra cosa, molto importante. Nella poltrona del Cinema Europa, mi sembrava di non aver costruito niente fino ad allora, perché avevo ancora tutte le tessere del puzzle chiuse nel sacchetto: lo stringevo tra le mani, ma non mi sembrava abbastanza. Pensavo che le tessere non avrebbero mai composto un disegno, e avevo così tanta paura di vedere dei vuoti da non avere il coraggio di tirarle fuori e cominciare ad assemblarle. Quando ho affrontato la paura, ho capito che avevo costruito tante cose, nella mia vita. Ho scavato per trovare ciò che mi aveva sempre fatta stare bene, per riprendermelo e per imparare a tenerlo stretto, ma non tanto stretto da permettergli di soffocarmi. Ho pianto, moltissimo, ma ho imparato anche a darmi qualche pacca sulla spalla. A unire le mani e chinare il capo, con gratitudine. Ad accettare che ci saranno sempre momenti in cui mi sentirò in perdita, in cui mi dirò “Ma come, ancora, dopo tutta questa fatica?”, in cui penserò alla frase del documentario visto al Cinema Europa, sapendo che quella finestra dai 20 ai 30 anni si è ormai chiusa da un pezzo.

Sto imparando a farci i conti, a dirmi invece che è ancora, e sarà sempre, il momento di costruire: è il solo modo che abbiamo per trovare il senso, e ognuno lo stabilisce secondo una precisa scala di valori. È il solo modo per riempire il nostro sacchetto e finire il puzzle. La buona notizia è che il disegno da comporre è in divenire, si adatta, segue le nostre traiettorie di vita. È ricco di colori, sfumature e mille ghirigori, ma soprattutto ci permette di riconoscerci nella sua trama, di leggere le nostre impronte e poter accennare un sorriso.

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Erica Di Cillo

Freelance Digital Copywriter | Web Writer | Content Manager